“Fiore”: la recensione di Joseph Moyersoen

FIORE di Claudio Giovannesi

Dopo “Alì ha gli occhi azzurri”[2], il regista Carlo Giovannesi, con la sua ultima opera presentata nella sezione Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes 2016 tra gli applausi del pubblico e della critica, torna a occuparsi di adolescenti, dei loro amori e delle  barriere che li dividono.

“Fiore” è Daphne (interpretata da Daphne Soccia), una ragazza di diciassette anni senza fissa dimora, con il padre Ascanio (interpretato da Valerio Mastrandrea) che sta terminando di scontare una condanna definitiva in regime di detenzione domiciliare. Daphne è dedita alle rapine di cellulari, commissionate da un ragazzo maggiorenne; il film si apre proprio con due rapine commesse da Daphne nelle stazioni della metro romana, una in compagnia di un’amica che va a segno per entrambe, l’altra da sola che invece non va a buon fine. Infatti la persona offesa è il figlio di un poliziotto, che scatena il padre e i colleghi a un inseguimento estenuante di Daphne, fino alla sua cattura.

Daphne viene ammanettata e nella scena successiva la ritroviamo nel carcere minorile, con la sua aria spavalda e scontrosa, che difficilmente si apre e lega con le coetanee o con il personale della struttura. Daphne è una ragazza adolescente che dietro alla maschera di apparente sicurezza, nasconde una grande fragilità e un grande bisogno di amore. Ha alle spalle diversi vissuti abbandonici: della madre non si sa nulla, mentre del padre si sa che ha trascorso 8 anni in carcere. E Daphne in carcere si fa subito conoscere: litiga con le altre ragazze, incendia le lenzuola della cella, viene messa in isolamento. In infermeria incontra Josh (interpretato da Josciua Algeri), un ragazzo che già da tempo sta scontando la sua condanna in carcere. Dopo uno scambio di favori (telefonata alla fidanzata di Josh in cambio di due pacchetti di sigarette), inizia una storia d’amore a distanza, infatti nel carcere non è consentito l’amore, una storia d’amore fatta di sguardi da una cella all’altra, di brevi conversazioni e di lettere clandestine tra i due adolescenti che si trovano nei due diversi bracci, maschile e femminile,  del carcere minorile.

Daphne prosegue il suo percorso altalenante in carcere, tra adesione alle regole e trasgressioni, anche gravi, fino a quando Josh non viene trasferito in comunità per un affidamento in prova nel nord Italia, lo stesso istituto che viene proposto per Daphne da eseguirsi nell’abitazione del padre, proposta che però quest’ultimo rifiuta. Qui c’è un parallelismo con il rifiuto di un padre (Marco Messeri) alla figlia (Micaela Ramazzotti) protagonista di “La passa gioia” di Paolo Virzì. Passano le settimane, e Daphne ottiene un permesso di uscita di due giorni, per partecipare alla comunione del figlio della compagna rumena del padre. La ragazza potrà così assaporare la libertà, con una gita sulla spiaggia e la notte insonne nel piccolo appartamento del padre, prima dell’evento.

Carlo Giovannesi si cimenta nuovamente con uno stile da “Nouvelle Vague”, intenso e realista, con protagonisti non professionisti e un argomento che conosce bene: gli adolescenti di periferia, una gioventù che spesso sfoga la sua irrequietezza nell’illegalità, una gioventù contemporaneamente vitale e spigolosa. Ma la fotografia non è più sgranata e scura come nell’opera precedente, bensì nitida e solare, soprattutto quando lo sguardo del regista coincide con – o si sovrappone a – lo sguardo della protagonista, ossia in gran parte dell’opera. Come nitidi e solari sono le tensioni di cui è intrisa l’intera opera: tensione narrativa, psicologica, emotiva, sentimentale e anche sessuale. La protagonista Daphne ci ricorda la carismatica Asia Argento a inizio carriera, con il suo sguardo intriso di emozioni forti come la rabbia, l’orgoglio, la solitudine, l’amore, l’odio, la delusione, la speranza. Dopo vari casting andati a vuoto, il regista la incontra in un bar dove faceva la cameriera e la trova perfetta per il ruolo di protagonista. Mentre Josh è un ragazzo che è stato realmente in carcere, ha svolto laboratori teatrali con gli operatori del carcere minorile Beccaria di Milano, nonché un percorso di affidamento in prova.

Il film presenta alcune imprecisioni rispetto al funzionamento del sistema di giustizia penale minorile italiano, in particolare della carcerazione preventiva e post condanna, ma sono errori da considerarsi di secondo piano, visto che la protagonista è un’altra: un’adolescente, con la sua vita, la sua storia d’amore, i suoi desideri e le sue fragilità. Si deve invece considerare come assolutamente centrato invece un altro aspetto fisiologico e purtroppo tipico nella giustizia minorile, ovvero la tensione degli operatori (in questo caso gli educatori del carcere minorile, ma analoghe considerazioni si possono fare per i magistrati e i legali che mai compaiono nei film) nel progettare, anche cocciutamente ben sapendo che le cadute fanno parte del percorso di crescita, percorsi alternativi in favore dei ragazzi, per poi vederli vanificare dall’irrazionalità di alcune spinte adolescenziali o dal prevalere  di richiami ancestrali o dall’essere sopraffatti dalle problematiche individuali, con un senso di frustrazione negli operatori che anche lo spettatore potrà sperimentare.

Il regista ha frequentato con gli sceneggiatori il carcere minorile di Casal del Marmo (Roma) per circa cinque mesi (gennaio-maggio 2014), coinvolgendo i giovani detenuti, in vari laboratori sul tema del linguaggio video e cinematografico, per poter scrivere la sceneggiatura nel carcere minorile e costruirla sulle esperienze e sulle reali biografie dei singoli detenuti, nonché per cogliere il comportamento e le dinamiche dei giovani detenuti e degli agenti della polizia penitenziaria, utilizzati come consulenti, per rendere le riprese ancora più realistiche. Il film è stato successivamente girato nel carcere ristrutturato de L’Aquila, non ancora utilizzato.

Il regista, interpellato sui protagonisti, afferma:

In una galera di corpi e di sentimenti … i protagonisti sono due giovani rapinatori detenuti che conoscono l’amore in carcere e quindi è un paradosso. In carcere l’amore è vietato, si può consumare solo da una cella all’altra, con ponti clandestini lontani dalla polizia penitenziaria…”

“Cercavamo il più possibile una vicinanza tra l’attore e il personaggio, quindi cercavamo i ragazzi che dovevano essere predisposti alla recitazione, di essere veri e il più vicino possibile per esperienza e per la loro biografia ai personaggi che raccontavamo. E spesso le due cose si fondevano e si mischiavano. Paradossalmente quelli che mi hanno dato meno problemi, sono quelli che sono stati in carcere, loro erano i più disciplinati…”

“Una cosa che ho visto, e che spesso il carcere è ereditario, cioè molti ragazzi che stanno in carcere, ci stanno perché i genitori sono stati in carcere…

Per il regista il carcere non è solo mancanza di libertà, ma è anche mancanza di amore.

[2] Cfr recensione alla seguente pagina web: http://www.tribmin.milano.giustizia.it/it/Content/Index/29232

 

“Fiore” di Carlo Giovannesi 

Recensione di Joseph Moyersoen, Giudice Onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Milano