Un affare di famiglia: recensione di Marinella Malacrea

Regia di Hirokazu Kore-Eda
2018

Il film dura due ore e si sentono tutte. La speranza di trovare una vera via d’uscita al ‘caos calmo’ del nucleo protagonista della vicenda rimane delusa. E l’impatto con una sensibilità e una cultura inevitabilmente distanti dalla nostra non è abbastanza compensato dal ‘toccare l’umano’ che altrettanto inevitabilmente sta sotto alla diversità.
Tuttavia qualche riflessione si impone.
Per dare un ordine alle riflessioni che seguono, ho pensato di individuare i vari personaggi attraverso il ruolo che ricoprono nel nucleo, per non appesantire con nomi giapponesi la lettura. Il messaggio del film, forse più dissacrante per la società nipponica che per la nostra, è che i legami legali e di sangue possono essere peggiori di legami fluidi e certo pieni di limiti, ma scelti, quindi liberi, quindi più forti.
L’affermazione diretta di questo concetto viene esplicitata circa a metà del film dalla ‘madre’, e ripresa dalla ‘nonna’ che tra sé e sé ringrazia il cielo della fortuna che le è toccata stando inserita in questa ‘famiglia’ elettiva. E’ il punto che ha fatto da fulcro alle riflessioni che da più parti si sono lette sul film.Se guardiamo da vicino il film, in realtà nessun aspetto di questo messaggio ha un’effettiva consistenza.In primo luogo, di libera scelta è effettivamente impossibile parlare.
Tutti, grandi e piccoli, vengono da situazioni drammatiche e contorte (qualche volta ho davvero perso il filo). La sopravvivenza in un ambito non violento e in cui i bisogni primari sono salvi (e non sarà un caso che nel film si mangi continuamente) sembra ciò che tiene insieme questa ‘famiglia’. Una famiglia non esigente, di ‘marginali’. Non c’è pretesa di conformità a regole o modelli ideali, perché tutti, nel passato e/o nel presente hanno evidenti colpe o almeno cose di cui non andare fieri. Non c’è pretesa o sfruttamento nei riguardi degli altri componenti, neppure nell’attingere tutti alla pensione della ‘nonna’ o nell’avvio al taccheggio dei ‘figli’, che sembra più che altro un fenomeno di assimilazione (come afferma il ‘padre’ quando dice alla Polizia: “gli ho insegnato l’unica cosa che so…”). Non c’è volontà di andare a fondo nel dolore di ciascuno, come si vede nelle poche confidenze scambiate tra gli adulti, ma soprattutto nelle caute e rade domande che vengono poste alla piccola, la cui situazione di evidente maltrattamento, trascuratezza e violenza assistita pure era stata chiaramente percepita.
In secondo luogo, alla fine i legami legali e di sangue prevalgono. Ciò avviene per l’azione istituzionale, in cui sono rappresentati assistenti sociali che si preoccupano più di analizzare i presunti desideri frustrati di maternità della protagonista, colpevolizzandola, invece di occuparsi della situazione in cui versava la piccola proprio ad opera dei suoi genitori, da cui il ‘rapimento’ della ‘madre’ e del ‘padre’ l’ha protetta, affrontando non pochi rischi.
Ma anche i diretti protagonisti infine si allineano alla ‘lettura’ istituzionale. La ‘madre’ accetta l’interpretazione psicologica del suo gesto di portare la piccola a casa propria. Già in carcere, segnala al bambino tipo e posizione dell’auto in cui è stato trovato abbandonato, come via per ricercare la propria famiglia di origine. Il ‘padre’ ammette con dolore di non poter essere considerato padre davvero, come sperava che il ragazzo potesse vederlo, perché nel momento del pericolo di far venire alla luce la loro situazione irregolare ha scelto di abbandonarlo in ospedale.
Allineamento senza difesa, in cui tutto il valore di oblatività che comunque queste persone dimostrano non sembra riconosciuta per primi da loro stessi. Pensiamo in questo senso alla ‘madre’ che si assume tutta la colpa dell’occultamento di cadavere della ‘nonna’ per risparmiare al ‘padre’ una pena appesantita dai precedenti penali; sempre alla ’madre’ che rinuncia al lavoro per salvaguardare il segreto rispetto alla piccola; alla decisione di tutti di portare comunque la bambina con loro nella progettata fuga; ai rischi affrontati consapevolmente nel proteggerla e includerla prima.
Devo dire che su questo ho sentito un coinvolgimento che correggeva la generale ‘piattezza emotiva’ che mi è arrivata dal film: una pena per tanto auto-disconoscimento, tanta arrendevolezza a un contesto di giudizio in cui i ‘giudici’ avevano forse da vergognarsi più dei ‘giudicati’, quanto a superficialità nel valutare le situazioni.
Infine un pensiero ai bambini. Che lezione di vita per loro? Imparano che si soffre meno e si tiene un migliore equilibrio in rapporti distanti piuttosto che in quelli coinvolgenti. Se manca una preoccupazione attiva di fare il loro bene (nessuno si cura di mandarli a scuola e di dove passano le giornate, anzi sono instradati al ‘taccheggio’) almeno nessuno vuole loro male e la sopravvivenza è assicurata. Si adattano quindi a questi surrogati di legame, apprezzandone le caratteristiche di non violenza ma conservando la consapevolezza di quello che sono. E’ il ‘padre’ che forza un po’ i limiti, chiedendo in varie circostanze al ‘figlio’ di essere chiamato “padre”, pur consapevole dei limiti reali propri e della situazione in sé: ma il ‘figlio’ non ci sta, quel
che ha non gli basta per un investimento così profondo. E anche serbando affetto per quello che riceve, non si volta indietro sul pullman che lo porta alla sua nuova destinazione comunitaria, sebbene sia consapevole dell’inseguimento di corsa che il ‘padre’ sta facendo per strappargli un ultimo sguardo o parola di congedo.
Identicamente la bambina: quella esperienza non violenta ha lasciato in lei una traccia decisa che la determina, tornata nella famiglia di origine, a non avvicinarsi alla vera madre, ormai consapevole che “se ti fanno del male non puoi credere che lo facciano perché ti vogliono bene” (come insegnato dalla ‘madre’).
Anche aver avuto un ‘fratello’ ha lasciato il segno, come si vede quando gioca silenziosamente con le biglie che glielo ricordano. Ma spingere lo  sguardo oltre il parapetto del balcone è l’unica mossa attiva che fa per ricercare quella ‘famiglia’, che peraltro si è nel frattempo dissolta.
Sappiamo che ci vuole ben altro per risanare modelli di attaccamento così carenti e distorti nei bambini. In sintesi, troppa impotenza rassegnata soffoca piccoli semi di umanità, lasciando, almeno in me, insoddisfazione e tristezza.