“La pazza gioia”: una recensione di Luigi Raciti e Monica Micheli

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E’ un film doloroso “La pazza gioia” di Virzì, (sceneggiato insieme a Francesca Archibugi) un film dove la grande assente è proprio la Gioia e dove ogni scena, ogni attimo, trasuda invece di profondo dolore.

Virzì ci ha messo l’anima, la sua, e il suo dolore di figlio (racconta in un’intervista che la madre è stata una paziente psichiatrica piuttosto seria, e la descrive come bipolare, in scompenso dopo aver partorito un figlio nato morto quando il futuro regista aveva 5 anni; racconta di aver a lungo accompagnato la madre nel peregrinare per servizi psichiatrici).

Per questo pensiamo che quest’opera meriti il massimo rispetto, e sia un’opera veramente riuscita. Ci sono immagini, dialoghi e citazioni che forse resteranno per sempre nella mente collettiva. Non si cancelleranno dialoghi e frasi come: “Ma siete matte?” “Secondo alcune perizie sembrerebbe di si!”, o anche: “Dice sto troppo male per tenere il bimbo, una mattina vengono a prendermelo in 8. Allora curatemi, no? Datemi Elia, che mi curate levandolo?”

Il film ha sicuramente il merito di non dividere il mondo in buoni e cattivi, da spettatori vediamo e capiamo le ragioni di tutti, e proprio per questo la sofferenza è maggiore. Sarebbe più facile parteggiare per uno o l’altro dei personaggi, ma non ci si riesce, ognuno ha i suoi lati d’ombra e di luce, di ognuno si intravedono i limiti e le risorse. E’ questa la sua più grande bellezza, questo tenere lo spettatore in bilico, questo ricordarci quanto è faticoso e doloroso mantenere uno sguardo che cerca giusta distanza, questo oscillare tra punti di vista e vissuti di madri, padri, figli di 3 generazioni, nello sforzo di costruire un affresco in cui nessuno resti fuori, in cui ci sia posto per le ragioni e i vissuti di tutti.

Detto questo e altro, detto della bellezza e coraggio del far recitare se stesse delle vere pazienti psichiatriche, dell’aver mostrato quanta cattiveria, ipocrisia, malvagità ci sia nel mondo dei sani, “in quel manicomio a cielo aperto che è l’Italia oggi” (altra intervista), detto tutto il bene possibile sui premi che prenderà, tutti strameritati, forse bisognerebbe dire a Virzì che curare la malattia mentale non è quello che lui mostra, o non è solo quello. Lui forse ha percepito solo la generosità la buona volontà, degli operatori psichiatrici, custodi permissivi, che rischiano per amore del paziente. C’è, ci dovrebbe essere ben altro. Il cinema ha maltrattato alla grande gli strizzacervelli; Virzi ne fa ancora dei personaggi patetici, in cui non ci riconosciamo granché.

Il finale lascia spazio a diverse interpretazioni, che dividono anche i recensori: potremmo pensare che sia il bambino, come fosse un Gesù Bambino, miracolosamente comparso oltre le sbarre, a fare il miracolo a tutti: ai sofferenti dà la forza di accettare la loro condizione, ai fortunati la fortuna di continuare a essere buoni, anche se certe rinascite, certi reinfetamenti vanno benissimo nei film, ma sono fortemente fuorvianti rispetto a quello che oggi si può fare con le psicoterapie e le cure psichiche in genere….o forse ci piace pensare che Virzì ci apra ad uno scenario talmente lontano dalla realtà che finiamo per non crederlo più neanche pensabile….., uno scenario in cui “il supremo interesse del minore” funge finalmente da vero da principio ordinatore… e porta “miracolosamente” gli adulti a farsi da parte, ad accogliere la complessità dei legami e ad accettare di farsi curare, per rispetto, per amore, perché quello è il momento in cui si diventa davvero “madri”.

Luigi Raciti e Monica Micheli