A testa alta: la recensione

 di Emmanuelle Bercot*

a testa altaMalony (interpretato dal giovane e promettente Rod Paradot) è un ragazzo con un’infanzia di violenza e deprivazioni: senza padre e con una madre fragile e tossicodipendente che alterna con il figlio momenti di attaccamento simbiotico a momenti di espulsione totale, fino ad abbandonarlo nell’aula del tribunale quando aveva solo 6 anni perché non in grado di accudirlo. Da allora Malony comincia la sua vita disordinata e a rischio di devianza dentro e fuori dalle comunità educative in cui è collocato dal giudice minorile, alternando periodi di collocamento in comunità con periodi di rientro presso la madre, che riprova più volte a tenerlo con sé e a crescerlo, mettendo però in atto sempre le stesse dinamiche distruttive.

Malony nel frattempo cresce, diventa adolescente, entra nel circuito penale essendo in età imputabile (in Francia dai 13 anni), e la comunità educativa è sostituita dal carcere minorile, mentre cresce anche la rabbia dentro di sé. La giudice minorile Florence (interpretata da Catherine Deneuve) che l’ha seguito fin da bambino, collocato di volta in volta prima nelle comunità educative e poi nel carcere minorile, con l’aiuto del nuovo arrivato educatore Yann (interpretato da Benoît Magimel), dà ancora una chance a Malony e gli tende per l’ultima volta la mano.

Un racconto di formazione toccante e realistico, continuamente minacciato e rimesso in discussione dalle lotte intestine di colui che dovrebbe portarlo avanti, che chi lavora a contatto con gli adolescenti con un passato abbandonico e a rischio di devianza conosce molto bene. Un racconto che mostra senza veli quanto è difficile il percorso di crescita, maturazione e responsabilizzazione di un ragazzo deprivato fin da bambino della presenza, dell’affetto, della protezione e dell’educazione dei propri genitori, andando a impattare sui suoi sensi di colpa, tanti, nonché sulla sua autostima e sulla sua capacità di controllare i propri impulsi: entrambe bassissime. Sono tanti i temi sviscerati dal protagonista: il sentimento di estraneità di chi si sente esiliato ai margini della società, il bisogno di essere compreso e aiutato anche se non è facile accettare l’aiuto, la resilienza e la redenzione.

Il sistema di giustizia minorile francese è simile a quello italiano, e prevede anch’esso in materia civile e in situazioni di pregiudizio (enfance en danger), interventi di allontanamento del minore dal proprio nucleo familiare adottati dal Tribunale per i minorenni (Tribunal pour Enfants) ed eseguiti dai servizi sociali, quando si ritiene che i genitori non siano in grado di prendersi cura del figlio minore. In materia penale, gli interventi previsti dal sistema di giustizia minorile francese, consentono di abbinare sanzioni penali con misure educative, fin dalle fasi dell’arresto e delle misure cautelari. Tali interventi sono solo parzialmente simili a quanto accade in Italia durante e dopo il processo penale minorile, rispettivamente con gli istituti della messa alla prova e dell’affidamento in prova in fase di esecuzione della pena.

Chi è riuscito a raccontare in modo efficace sul grande schermo di adolescenti difficili e a rischio di devianza, sono stati i fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, per esempio con “Il figlio” (2002), “L’enfant – Una storia d’amore” (2005), e “Il ragazzo con la bicicletta” (2011), o Gus Van Sant con “Elephant” (2003) e “Paranoid Park” (2007). Ma ci sono riusciti anche opere più recenti come “Mommy” (2015) del canadese Xavier Dolan e “Fiore” (2016) dell’italiano Carlo Giovannesi.

Emanuelle Bercot non è solo regista, bensì anche attrice e sceneggiatrice in opere come “Polisse” (2011) di Maïwenn Le Besco, e ha presentato in apertura al Festival di Cannes 2015 il suo “A testa alta”. L’opera possiede uno stile che pare rendere omaggio alla “Nouvelle Vague” di Françios Truffaut, contrassegnato dall’uso della macchina da presa a mano e dei piani-sequenza, con immagini realistiche, dialoghi semplici e una recitazione diretta che riesce a comunicare lo stato di tensione interiore del giovane attore protagonista, anche solo con sguardi e piccoli gesti. Ma i risultati che sembrano definitamente raggiunti da Malony, possono essere rimessi in discussione da un semplice gesto o da una sola parola. Dietro a queste reazioni che rimettono ogni volta tutto in discussione, si celano richieste inconsapevoli di aiuto cui non è semplice, ma è indispensabile essere pronti e in grado di accogliere.

Durante un’intervista, la regista ha raccontato: “La mia idea iniziale era realizzare un film sul sistema di sostegno che ruota intorno ai bambini. Sono stati gli anni di ricerca che ho condotto prima di iniziare le riprese che mi hanno permesso di capire quanto questi operatori fossero motivati, di conoscere la loro abnegazione, pazienza e capacità di non mollare mai… Da bambina ero andata a trovare mio zio – assistente sociale – in Bretagna dove era responsabile di un campo estivo per giovani ‘delinquenti’. Uno di loro era un bambino. Da ragazza di buona famiglia, sempre protetta e incoraggiata, ero affascinata dal comportamento di questi adolescenti che non avevano avuto la mia stessa fortuna, ero attratta dalla loro insolenza, dal loro atteggiamento ribelle nei confronti dell’autorità e delle convenzioni sociali. Allo stesso tempo ammiravo il lavoro di mio zio e degli altri assistenti sociali per rimetterli in carreggiata, educarli, insegnar loro ad amare sé stessi e gli altri, portare rispettare ai propri simili, ma soprattutto a sé stessi. Il ricordo è rimasto in me così presente che da adolescente volevo diventare un giudice minorile. Invece, ho fatto questo film”.

*di Joseph Moyersoen, giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano

Articolo originale sul sito del Tribunale per i minorenni di Milano

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