di Patrizia Rautiis
sostituto procuratore generale presso la Corte di appello di Bari
Zain, il piccolo protagonista dell’opera premio della Giuria a Cannes 2018, viene elevato a “manifesto” dei mali del mondo, offrendo ai nostri occhi la mostruosità di un’infanzia già troppo violata, cercando di coinvolgere un’umanità che rimane sempre troppo distante, inerme e colpevole
L’odissea di un bambino, anzi due. Meglio, quella di milioni di bambini. Quelli vissuti e che ancora vivono o passano da quell’immenso campo profughi che è il Libano, ma che assomiglia molto più all’Inferno in terra di qualsiasi altra cosa la mente umana riesca a figurarsi.
Cafarnao significa caos e miracoli. Il nome sembra derivare da quello di un antico villaggio della Galilea che all’arrivo di Gesù entrò in subbuglio. Del passaggio di Cristo in questo angolo della Terra rimane molto poco, ma da allora, il termine è diventato sinonimo di confusione assoluta.
Ma è necessario procedere con ordine nell’analisi di quest’opera, perché il caos fisico, morale e mentale regna sovrano al suo interno, durante e dopo la visione.
Zain è un bambino dodicenne cresciuto in un quartiere povero di Beirut. Non va a scuola, è utilizzato dai genitori per racimolare quotidianamente i pochi spiccioli che servono ad andare avanti. La famiglia è assai numerosa e lo sfortunato protagonista è costretto a vivere in un’indigenza così tragica e profonda capace di desertificare i cuori e le menti delle due figure genitoriali. La mamma e il papà, un giorno, arrivano addirittura a cedere in “sposa” la loro figlia undicenne, nella disperazione della stessa.
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