L’infanticidio di Catania ci riporta con violenza al cuore delle questioni che quotidianamente affrontiamo, da psicoterapeuti, e in generale da operatrici e operatori della salute mentale, che si occupano di proteggere bambine e bambini dalle violenze, e di curare autori e vittime delle violenze interne alle famiglie.
Capire non vuol dire giustificare. Abbiamo bisogno di capire, secondo logiche di pensiero scientifico, cosa accade nelle menti e nelle vite di chi usa violenza dove bisognerebbe usare solo amore. “Queste cose non si possono giustificare! Sono mostri!” ci sentiamo dire, come se capire equivalga a giustificare.
Capire, come cerchiamo di fare noi, queste menti, queste vite, queste tragedie si deve. Ci serve a capire quali occasioni abbiamo perso per portare aiuto, per intervenire prima che partano le catastrofi nelle vite umane.
In realtà abbiamo capito molto, occupandoci da decenni di queste storie. Aiutando persone che non diventeranno mostri, in silenzio.
Due cose ci pare di aver capito, pertinenti a questa vicenda e a tutte le storie di tragedie intrafamiliari che la cronaca ci propina un giorno sì e l’altro pure.
La prima è che le nostre società preferiscono indignarsi, demonizzare gli autori di queste tragedie, piuttosto che chiedersi e chiederci, seriamente, come possiamo fronteggiare e prevenire queste catastrofi. Servirebbero autopsie psicosociali, dopo ognuno di questi delitti, ma farle significa scoprire anche le nostre, del corpo sociale, degli addetti ai lavori, di colpe, insufficienze, dimenticanze. Significherebbe spendere diversamente soldi pubblici.
L’altra cosa che abbiamo capito, ma ce l’aveva già spiegata Euripide tramite Medea, è che queste tragedie derivano dal fatto che l’attaccamento interpersonale è la forza che muove e spiega la maggior parte dei comportamenti umani. L’attaccamento “coercitivo”, in particolare, raccontato da medici e psicologi come Bowlby, Ainsworth, Crittenden, basta e avanza a capire come si arrivi all’infanticidio, alla violenza domestica, ai femminicidi e maltrattamenti di cui, da sempre, bambine e bambini sono le prime vittime. E anche le seconde, sopravvissuti a storie di attaccamento malato, una volta diventati adulti.
Capire non vuol dire giustificare.