di Luciano Moia 

Dopo i casi di bambini contesi, quello della ‘coppia dell’acido’ e quello dei ‘genitori-nonni’, si scorgono un arretramento nella cultura giuridica e una pericolosa apertura alla logica adultocentrica

Il diritto del legame di sangue evocato qualche giorno fa dal procuratore della Cassazione a proposito di due casi molto discussi di bambini contesi – quello della ‘coppia dell’acido’ e quello dei cosiddetti ‘genitori-nonni’ – non è solo un arretramento nella cultura giuridica ma anche una pericolosa apertura alla logica adultocentrica. Quella secondo cui il bambino è un ‘desiderio’ a disposizione dei grandi che si può ottenere a qualsiasi prezzo. Anche ignorando il fatto, per esempio, che un minore viva già stabilmente da quasi sette anni con la stessa famiglia e che l’adozione sia stata disposta con sentenza definitiva e legittimante (caso dei ‘genitori-nonni’ di Casale Monferrato). Oppure (passando al caso milanese della ‘coppia dell’acido) che due sentenze di primo e secondo grado, e due consulenze tecniche d’ufficio (Ctu) conformi a quelle, abbiano considerato i genitori e i nonni di un minore del tutto inadeguati a svolgere funzioni di riferimento educativo.

Il fatto che, nonostante queste evidenze giuridiche e culturali, il procuratore della Cassazione, Francesca Cerone, abbia chiesto l’azzeramento di entrambe le decisioni spiegando che non si può mai spezzare il collegamento con la famiglia biologica, rischia di recuperare un concetto arcano e pericoloso, desunto dal peggior familismo, che rovescia il principio del ‘superiore interesse del minore’ recepito dalla nostra legislazione da almeno mezzo secolo. Era il 1967 quando la prima legge italiana sull’adozione superava il concetto medievale dell’affiliazione, secondo cui il bambino non diventava in alcun modo ‘figlio dell’affiliante’ e, soprattutto, il rapporto poteva essere interrotto in qualsiasi momento, in base alla volontà, e spesso all’arbitrio dell’adulto (non era indispensabile che ad ‘affiliare’ fosse una coppia). Poi nel 1983, la legge 184 – quella attualmente in vigore – poi solo parzialmente riformata nel 2001, proclamava finalmente il diritto del minore ad avere una famiglia. Una svolta importante, confermata dal diritto internazionale, su cui è vietato aprire spiragli concettuali. Perché quando nella giurisprudenza specifica il minore, bambino o ragazzo che sia, invece di risultare sempre e comunque centrale come soggetto debole, può essere messo da parte, oscurato, idealmente marginalizzato per far prevalere altri interessi – dal legame di sangue alla pretesa del figlio ad ogni costo – si spalanca un percorso ad alto rischio in cui i desideri vengono scambiati per diritti e in cui tutto quello che è tecnicamente possibile diventa anche eticamente lecito.

 

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