“Il Signor Diavolo” – di Pupi Avati. Recensione di Luigi Raciti

Non poteva arrivare in un momento meglio indovinato, in questa estate di demoni padani, il film di Pupi Avati “Il Signor Diavolo”. Quando si dice lo spirito del tempo.

Il film può essere visto come un thriller horror giallo, ma per noi addetti ai lavori di tutela dei minori questo è un film che:

– Ha per oggetto maltrattamenti estremi di e su minori.
– In cui l’ascolto del minore diventa affare di Stato.
– In cui si demonizza ciò che invece andrebbe metabolizzato.
– Dove politicanti privi di ogni scrupolo morale sfruttano le circostanze per determinare il risultato di prossime elezioni.
– Dove conta molto che i giudici facciano ciò che è gradito a chi comanda.
– Ambientato nella profonda Padania (e un poco anche a Roma).

Benché collocata in preciso momento storico politico (1952, Democrazia Cristiana decisa a difendere l’Italia dai comunisti mangiabambini a qualsiasi costo), la storia che propone Avati si presta a ragionare all’attualità di Bibbia-no con una pregnanza che pare essersi nutrita delle lezioni di Franco Fornari (ad es. “La malattia dell’Europa. Saggio di psicopolitica sulla struttura diabolica del potere segreto”, in Scritti scelti, R. Cortina ed., (2011), pagg. 475 e seg.)

La riflessione che suggerisce il film concerne l’uso politico e giudiziario della superstizione, e della paura tout court, nella lotta per conquistare e mantenere il potere politico. Demonizzare i propri avversari è un’operazione che può avere successo, così come fare caccia alle streghe può regalarti un posto in parlamento. Questo è un film che già dal titolo ci chiama ad avere rispetto ed attenzione per queste dinamiche, che sono al tempo stesso politiche e psichiche. Affrontare le difficoltà che incontriamo nella nostra vita privata o professione, o politica, con atteggiamento dia-bolico (etimologicamente: considerare il modo separato, non connesso, contrapposto a “sim-bolico”, considerare assieme), anziché dia-logico, fa cadere “l’uomo nel regno dell’animalità, che accomuna l’uomo a tutti gli altri animali che fanno dell’uccisione un criterio di verità” (Fornari, cit. pag. 485)
Ora come mai prima abbiamo bisogno di persone e idee che ci aiutino a sim-bolizzare al posto di dia-bolizzare i nostri problemi e le difficoltà. Il triste destino di Furio Momenté (omen nomen!), il protagonista del film, ci può aiutare a fare, se non la cosa giusta, almeno errori meno fatali.
Conforta pensare, in questo momento, che se è vero che siamo in una fase storica che cerca vittime da demonizzare, testimoni da zittire, innocenti da sopprimere, la cultura e la società italiana hanno anticorpi culturali molto reattivi per difendersi da queste regressioni.
Oltre questo penso che il film di Avati sia godibile in sé per tante altre ragioni, tra cui la fotografia, i costumi. Non saprei dire invece se è riuscito come film spaventante, non conosco il genere.
Luigi Raciti