L’effetto Bibbiano preoccupa le famiglie che decidono di accogliere i piccoli maltrattati e abusati La storia di Maria Chiara e Mauro: “Ma quali soldi, il rimborso spese non ci è mai arrivato”

da La Repubblica

«Da quando è arrivata Sara ha preso quattro chili. Adora mangiare e cucinare. Ci avevano detto che era una bambina silenziosa e timida, ma dentro casa, invece, parla a macchinetta. A volte la sentiamo ridere, con quelle risate che sarebbero diritto di ogni bambino, allora diventa chiaro il senso di questo affido: dare a Sara una famiglia finché un giorno non potrà tornare nella sua». Una casa a Roma Nord, un terrazzo pieno di piante, una grande cucina, due pappagalli, cinque figli dai 24 ai 14 anni, più Sara, da tre mesi ultima arrivata (con decreto del tribunale) nella vita di Maria Chiara e Mauro, 50 e 48 anni, impiegata lei, bancario lui. Ci chiedono, per proteggere Sara, di non pubblicare il loro cognome. Noi e i nostri figli Andrea che studia Informatica in Francia, fa il caffè per tutti, mentre scherza con Sara, nome di fantasia per una bambina scricciolo, allontanata da una famiglia violenta. «E’ vero che hai scoperto Geronimo Stilton?». E Sara, tutto d’un fiato: «Sì, sono un tipo anzi un topo». Estate, sabato pomeriggio. Mentre il caso di Bibbiano avvelena i pozzi, mentre Salvini promette commissioni d’inchiesta sulle case famiglia e Bonafede annuncia una (confusa) “taskforce” bisogna venire qui, a casa di Chiara e Mauro, per capire che cosa è, davvero, l’affido familiare. Un percorso intimo di solidarietà profonda. «Oggi per quella storiaccia emiliana sembra che tutti i genitori affidatari siano ladri di bambini. Persone che accolgono un minore in difficoltà per rubare i soldi del contributo. O peggio. Forse, allora, Salvini e gli altri dovrebbero venire a conoscerci, prima di demolire un lavoro tanto prezioso». I servizi sociali Racconta Maria Chiara: «La cosa più bella che Mauro e io abbiamo costruito è stata la nostra famiglia. Ci siamo sposati giovanissimi, abbiamo avuto subito i bambini, in pochi anni siamo diventati una tribù. Ma dopo la nascita di Giulia, l’ultima, ho sentito che potevamo aprirci e accogliere nel nostro nucleo figli meno fortunati dei nostri. E accompagnarli per un pezzo di vita». Un avvicinamento lento e non facile però. «Dopo essere stati esaminati dai servizi sociali e giudicati idonei all’affido, più volte nel tempo ci hanno proposto casi che non si potevano conciliare con la nostra vita familiare», dice Mauro che sembra avere il dono del buon umore. Maria Chiara: «Una psicologa mi disse che non potevo essere una buona madre affidataria, perché avevo già troppi figli. Invece Sara rifiorisce ogni giorno perché è inserita in un nucleo sano, pieno, anche, di fratelli e sorelle». La madre naturale Sara che ha bisogno di cure e sostegni psicologici, Sara che ogni mese, tenendo per mano Maria Chiara incontra, in modo protetto, sua madre naturale. «Quando le ho viste abbracciarsi e piangere ho provato una grande pena. Se un giorno Sara potrà tornare a casa avremo vinto tutti». Mauro sorride: «Il sostegno comunale per l’affido? L’abbiamo chiesto, anche fossero pochi euro ci aiuterebbero, ma per adesso non è arrivato niente. Pazienza. Come in ogni grande famiglia, dove mangi in sette mangi anche in otto o in dieci». Maria Chiara: «Mentre i ragazzi crescevano, abbiamo affrontato il discorso sull’arrivo di un altro bambino nella nostra famiglia. All’inizio erano cauti, un po’ insofferenti, dicevano “siamo già troppi”. Poi quando hanno visto Sara l’hanno abbracciata e fatta entrare nella tribù». Genitori a tempo Nel percorso di consapevolezza verso l’affido per Maria Chiara e Mauro diventa fondamentale l’incontro con la rete delle famiglie “Borgo don Bosco” dei padri salesiani. «Ascoltando le storie degli altri “genitori a tempo” abbiamo capito il valore enorme di questo istituto». Tre mesi fa l’arrivo di Sara. Una bambina sopravvissuta a incuria e degrado. Approdata da Mauro e Maria Chiara dopo due anni in casa famiglia. Sara scherza con Mauro e abbraccia Chiara. «Quanto ci vorrà per ricucire le sue ferite? Non lo sappiamo. Per adesso la gioia è sentirla ridere».

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