Recensione di Monica Micheli
“Qui nella penombra” è un libro bello, doloroso, straordinaria e coraggiosa testimonianza di un orrore,
di quelli che faticano a venire alla luce, perché si consumano nella penombra di una realtà che nessuno
vuole pensare, vedere, riconoscere. Una storia “scritta con tutte le parole non dette e con tutte quelle
dette e mai ascoltate”. Carlotta Benedetta è una sopravvissuta, e ci racconta il suo viaggio di andata e
ritorno perché tutti sappiano, perché “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare” (cit. Primo Levi), così che nessuno possa dire “non è vero, non è possibile”.
E’ la storia di una famiglia, una famiglia felice: papà, mamma, una bellissima figlia… una storia normale, fatta di affetto, gite, risate, tenerezza,… fino a quando qualcosa si incrina, tutto resta uguale in superficie ma le carezze di quel papà alla figlia un giorno cambiano colore, non sono più le stesse, il linguaggio della passione sostituisce quello della tenerezza, qualcosa si incrina e il disagio si insinua piano piano nella piccola Benedetta. Un disagio a cui però è difficile dare un nome, resta lì, nella penombra di sensazioni che è difficile legittimare. L’orrore dell’abuso sessuale, di questo si tratta, resta per anni sottotraccia, nulla appare in superficie, se non il muto disagio di una ragazzina, che esprime il suo dolore in un urlo senza voce.
La fiducia, la bella e serena relazione tra Benedetta e il suo papà nei suoi primi 11 anni di vita, è il terreno che rende possibile alla bambina non vedere la “tela di ragno” che il padre sta costruendo intorno a lei.
Quando la tela sarà finita a Benedetta, ormai in trappola, non resterà che dire “si”. 6 anni di “si”, “si” che scavano un baratro tra Benedetta e la realtà che la circonda, nella quale bisogna fingere, sempre, fino al punto da smarrirsi un po’, non sapere più chi si è veramente. Dire sì mentre nel petto urla la voglia muta di dire “no”! Ogni alternativa, ogni tentativo di liberarsi dalla tela, imprigionano sempre di più Benedetta che alla fine smette di dibattersi e accetta, passivamente, rassegnata, di sottomettersi alla volontà perversa di un padre lucidamente manipolatorio. Anni di resa totale in cui Benedetta non lotta più, e finisce per sentirsi complice forzata di un gioco da cui non si vede via d’uscita.
L’autrice descrive tragicamente bene come, a rendere più tollerabile tutto questo, agisca la dissociazione, estrema difesa, protezione della mente che consente di non stare, almeno in parte, lì dove fa troppo male restare.
Uno dei meriti del libro sta nell’attivare una riflessione sui segnali “muti”, che tante ragazze nella situazione di Benedetta lanciano…. anche attraverso il loro corpo, maltrattato da un disturbo alimentare, lacerato da tagli inflitti per sentire un dolore fisico mille volte più sopportabile delle ferite dell’anima. Segnali che tutti vedono ma che nessuno legge, decodifica. Il racconto rende consapevoli che il silenzio, il non vedere, fanno di tutti noi dei complici, come accade alla mamma di Benedetta che, accecata dall’amore e dalla fiducia acritica verso il marito, non vede, non fa domande, non protegge, “sceglie di chiudere gli occhi” e firma la condanna della propria, sia pur amata, figlia.
I “buoni” in questa storia sono gli adulti che, più tardivamente, hanno il coraggio di vedere e di pensare l’impensabile, la professoressa testimone del lento aggravarsi del disagio della ragazza, la psicologa scolastica che raccoglie la prima rivelazione, i servizi sociali che non si sottraggono all’obbligo della denuncia e che spingono Benedetta là dove ha più paura di andare: il portare alla luce quanto accade da anni nella penombra, rompendo così quel quadro fittizio di armonia familiare tanto strenuamente tenuto in piedi a tutti i costi. L’intervento prezioso e liberatorio dei servizi affranca Benedetta dalla sua prigione, una prigione di cui ancora però non riconosce pienamente le sbarre.
La psicoterapia è il passaggio cruciale successivo; fuori dalla prigione tutto quello che Benedetta ha represso per anni la inonda e fa male, il trauma emerge con tutta la sua potenza e rompe tutti gli equilibri.
Solo un lungo e paziente lavoro di rielaborazione consentirà poco a poco di rimettere insieme i pezzi di un sé frammentato, di liberarsi dalla colpa e dallo stigma accedendo ad una visione più lucida della realtà e del proprio ruolo di vittima e potendosi finalmente consentire quella rabbia a lungo repressa o diretta verso di sé.
A sancire questo percorso la lunga lettera che Benedetta scrive al padre, una lettera lucida e dolorosa in cui la ragazza finalmente può dare voce a tutto quello che per anni ha tenuto nel cuore, restituendo al padre la realtà dei suoi vissuti, dando piena voce alla rabbia e al dolore, a testa alta, finalmente fuori dalla ragnatela.
E forse, a chiudere il cerchio dell’elaborazione è proprio la scrittura di questo libro. E’ attraverso la scrittura infatti, fedele compagna negli anni, che Benedetta Carlotta può finalmente pubblicamente raccontare la sua storia, e se nucleo dell’esperienza traumatica è il non percepirsi padrone di sé, dei propri pensieri, delle proprie scelte, il non saper dare significato all’abuso subito, il non poterlo e saperlo condividere mettendolo in parole, allora scrivere, raccontare la violenza e i vissuti correlati, può consentire di mettere nero su bianco il proprio dolore, quasi ponendolo fuori da sé, ma in modo partecipe e non più dissociativo. Scrivere dona inoltre una possibilità di controllo che contrasta il senso di impotenza e vince la vergogna. Da ultimo, scrivere pone tutti noi lettori nella posizione di quel “testimone soccorrevole” di cui parla Alice Miller, chiamati a ripercorrere il dolore tenendo simbolicamente per mano, attivando in lontananza l’empatia e la vicinanza che Benedetta bambina non ha avuto.
Quello che rende questo libro speciale e uno dei motivi per cui vale la pena di leggerlo, è la lucidità con
cui Carlotta Bragaglia racconta tutte le fasi del percorso, restituendoci il quadro globale di come l’abuso sessuale possa accadere all’interno delle nostre case, di come i “mostri” siano vicini a noi ed irriconoscibili.
La scrittura non cede mai a morbosità o compiacimenti, ci prende per mano e ci accompagna nel viaggio, ci rende testimoni e responsabili, come dice la stessa autrice, “…di saper vedere e di dover parlare, sempre, perché se sai, se vedi, se intuisci e scegli di tacere, diventi complice di quel male. Perché la penombra non è mai celata”